Murakami, il Cristianesimo e l’Ikea

L’altro giorno ho ripreso in mano dopo tanto tempo L’arte di correre di Murakami. A me è sempre piaciuto correre. Certo, non l’ho mai fatto alle Hawaii, tantomeno sulle sponde del fiume Charles, a Cambridge, nel Massachusetts. Mentre sfogliavo le pagine delle fotografie e fantasticavo di incredibili sudate all’ora del tramonto, cercavo di ripassare a memoria il contenuto della scatola blu sotto il letto – quella dove sono sistemate le mie mise sportive (un paio di magliette dell’Inter che non ho mai usato [realmente appartenute ai giocatori – Bianchi e Ronaldo –, mica comprate], calzoncini e calzettoni delle diverse squadre della mia carriera calcistica, più una serie di t-shirt assortite che, vecchie, bucate e sdrucite, servono solo a due scopi: sala prove oppure jogging).

Mi è sempre piaciuto correre, dicevo, e più in generale mi è sempre piaciuto fare fatica. Sì, mi è sempre piaciuto fare i giri di campo durante gli allenamenti di calcio, riprovare una canzone fino all’esaurimento fisico in sala prove, e cose così. E questo dev’essere a causa del Cristianesimo, dalla cui morale nessuno può dirsi salvo se nasce in un paese come il nostro. E quindi lo schema classico si applica magnificamente alla mia debole psiche: se non faccio fatica per raggiungere un obbiettivo, allora vuol dire che quell’obbiettivo non ha alcun valore. Se non sudo, se non mi ammazzo di fatica, insomma se non arrivo stremato alla fine, non mi sembra di aver fatto fino in fondo il mio dovere. Senso di colpa? Già, senso di colpa, dovunque e comunque, a manetta, a cannone, ditelo un po’ come volete, ma il concetto è quello. E il problema è che uno ci nasce proprio, con questo maledettissimo senso di colpa. Ricordo che già alle elementari c’era questo strano senso di malessere che ogni tanto mi pioveva addosso. Poi, quando è arrivata la scoperta delle pippe (“Figliolo, tu ti tocchi?” mi chiese un giorno il prete, durante la confessione, facendo scattare la mia curiosità per quella pratica che ancora non conoscevo), lì è crollato il mondo. Ogni tanto penso che se masturbarsi non fosse così facile, allora forse un individuo cresciuto in un paese cattolico potrebbe riuscire ad alleviare il senso di colpa derivante da tale pratica grazie alla fatica che dovrebbe affrontare per arrivare all’agognato risultato. E invece no.

Tre giorni dopo ero sul lungofiume con una maglietta sdrucita addosso, dei pantaloncini da calcio e il mio Nokia 1100 nella mano destra, impostato sulla funzione cronometro. Obbiettivo per la prima seduta di corsa: venti minuti. Raggiunto il risultato piuttosto agilmente, arrivato a casa avevo controllato se la maglietta era abbastanza sudata – se cioè avevo fatto abbastanza fatica. Il risultato poteva andare, così mi sono infilato nella doccia a cuor leggero, canticchiando Perdere l’amore mentre mi facevo lo shampoo (la mia canzone da doccia preferita, insieme all’indimenticabile Quando nasce un amore, Anna Oxa, Sanremo 1988 – il verso: “Farò di più, farò tutte le cose che vuoi fare anche tu”, cantata con quella erre arrotata che neanche Manuel Agnelli, riesce a ridurmi in lacrime ancora oggi, proprio come fece quella sera, davanti alla tv, quando avevo la tenera età di 14 anni di là da compiere).

Quella stessa sera, dopo cena, il mio cervello mi ha mandato il seguente messaggio mentre, sdraiato scomodamente sul mio divano scomodo, sfogliavo controvoglia il giornale del giorno, che era rimasto intonso sul tavolo del soggiorno (senso di colpa!): “Ehi, Murakami dice che fa dieci chilometri al giorno. Hai capito? Dieci chilometri. Noi quanto facciamo?” Avrei voluto rispondergli subito che quel “Noi” era fuori luogo, ma non volevo infilarmi nell’ennesimo battibecco, nel quale la mia materia grigia cerca sempre di convincermi che ogni cosa dipende da essa, quindi ho incassato la provocazione. E con quella sono andato a dormire. Il mattino dopo ho cercato su google il negozio sportivo più vicino e mi ci sono recato, con l’ottusa speranza di acquistare un oggetto che avesse le due seguenti, mirabili funzioni: contapassi e cronometro. Ora, è facile che il commesso, seppur simpatico, mi abbia buggerato. Fatto sta che son tornato a casa con un contapassi da 12.90 euro privo della funzione cronometro. In alternativa avrei potuto comprare un aggeggio da 69.90 euro in grado di calcolare tempo, velocità, frequenza cardiaca e calorie bruciate, ma non la distanza percorsa. Ho preso anche una maglietta in super sconto a 6.90 euro, una di quelle in tessuto tecnico che evitano che il sudore resti a contatto con il corpo. L’ho comprata anche se temevo che poi la maglietta risultasse completamente asciutta a fine seduta, vanificando così ogni risultato psicologico del mio sforzo.

Dopo aver terminato un po’ in ritardo il numero di cartelle che avrei dovuto rivedere per quel giorno, alle ore 19.00 ero pronto nella mia mise seminuova, con il Nokia 1100 nella mano destra e il contapassi agganciato ai pantaloncini. Il sole stava tramontando dietro le montagne, il ponte romano lasciava come d’abitudine che le acque del fiume scorressero tra le sue arcate e io avanzavo a grandi falcate su quello che stava ormai diventando un percorso abituale. Mentre riflettevo su quale fine potesse mai aver fatto una delle mie t-shirt preferite, scomparsa misteriosamente un paio di settimane prima, e mai più rinvenuta, un pensiero agghiacciante si è diramato dalla base del cranio fino alle estremità dei miei arti. Il catalogo Ikea. Più precisamente, un’immagine sulle prime pagine del catalogo Ikea. Quella in cui mostrano una cassettiera che viene sottoposta al test di resistenza. Quel test in cui stabiliscono per quante aperture e chiusure è garantito ogni cassetto. Niente di così sconvolgente, anzi: è piuttosto rassicurante sapere che il cassetto del comodino che hai appena comprato potrà essere aperto per 17.986 volte, prima di crollare, così, di punto in bianco, in una mattina come un’altra, lasciandoti sotto shock e con un paio di mutande in mano. Poi, però, il mio cervello pruriginoso mi ha suggerito un’altra cosetta: “E se anche le nostre giunture avessero una sorta di scadenza? Se le nostre caviglie, ginocchia, anche, gomiti, persino la mascella – per non parlare di altro –, potessero compiere il loro mestiere solo per un numero preciso di volte? Per esempio: ginocchio destro, 987.654 piegamenti; gomito sinistro: 1.987.436 movimenti; mascella: 9.673.532 aperture/chiusure…”

Mentre quel pensiero mi si formulava nel cervello, io stavo correndo. Senza alcun motivo. Senza una reale necessità. Stavo sprecando un numero imprecisato di movimenti per un’attività inutile. Sconvolto, ho rallentato l’andatura fino a camminare. Poi mi sono fermato del tutto. Il sole era ormai tramontato. Il mio aggeggio diceva che avevo percorso 7 chilometri e passa. Mio Dio. Sono tornato a casa lentamente, sforzandomi per assumere l’andatura più armoniosa possibile – e anche la più economica, dal punto di vista dello sforzo muscolare e della consunzione della struttura ossea. Ho sfilato le chiavi di casa dal calzino destro (perché, dove le mettete voi le chiavi di casa quando andate a correre?), le ho infilate nella serratura e mi sono diretto in camera da letto. Uno dei due colpevoli di tutta quella storia giaceva lì, sul comodino (‘Povero comodino, quanto ti resta da vivere?’, mi sono chiesto immediatamente). Ho afferrato il volume e sono andato a ficcarlo sullo scaffale più alto della mia libreria. Poi sono andato in salotto. Ho scartabellato tra le riviste ammonticchiate sul tavolino e ho trovato anche l’altro, che cercava di non dare nell’occhio con un’aria indifferente. L’ho estratto dalla pila e l’ho infilato senza tentennamenti nel cestino della carta da buttare. Poi mi sono fatto una doccia. Veloce. Sono uscito dal box, mi sono buttato sulle spalle l’asciugamano e sono andato in camera da letto. Ho acceso la luce e mi sono chinato sul comodino, per prendere un paio di mutande pulite.

Mezz’ora più tardi, ero spaparanzato sul divano. Scorrevo senza voglia le pagine del catalogo Ikea. Accanto a me, giaceva inerme il pomello del cassetto del comodino. Era arrivata la sua ora. Amen.

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