Ho una figlia. Si chiama Giorgia. Tra qualche giorno, compirà 17 mesi. Da questo specifico punto di vista, mi sento in testa alla classifica degli uomini più felici della storia. Ma la vita, in generale, è complicata, e non c’è bisogno che ve lo spieghi io in questo mio breve scritto.
Prima che nascesse, la mia mente era preda di pensieri e riflessioni su come avrei dovuto comportarmi, una volta diventato papà. Ho sempre sentito l’enorme e gioioso fardello di questa responsabilità. Enorme e gioioso ricorda la “Gioiosa macchina da guerra di Occhetto”, ma lasciamo perdere per un momento. Enorme e gioioso. Quindi pensavo che avrei dovuto essere così e così, fare così e così, non cedere qui e qui ed essere invece di manica larga qui e qui. Tutte stronzate, ovviamente. Ma lo si scopre solo dopo. È questa la forza della vita: ha sempre ragione lei. Sempre, inteso nel senso di: sempre.
Mia figlia mi ha fatto scoprire un sacco di cose di me che non conoscevo, mentre cercavo di imparare qualcosa su di lei (imparare: tenete a mente questo verbo, perché sarà uno dei leit-motiv di questo scritto. Vi anticipo il succo: sì, i genitori diventano tali imparando dai propri figli, e non il contrario).
Un breve elenco di ciò che mia figlia g mi ha insegnato:
sono molto più forte di quanto pensassi;
sono molto più debole di quanto pensassi;
ho molta più pazienza di quanto pensassi;
possiedo risorse che non immaginavo di avere;
mi mancano qualità che ero convinto di possedere;
sono molto più fragile di quanto pensassi;
a volte sono una sorta di lampione fulminato, che può essere rimesso in funzione solo da lei;
i miei limiti fisici, nervosi e psicologici sono elastici;
sono meno rigido di quanto pensassi;
sono molto più felice di quanto avrei immaginato.
Ora. Di fatto la mia esistenza attuale è il frutto di una mediazione. Tra l’uomo che ero prima e l’uomo che sarò: ora sono un uomo che non è, un essere non ben definito, che si sta muovendo da un punto A a un punto Boh? E il viaggio è duro, esilarante, doloroso, eccitante, buio, meraviglioso, terrorizzante, fantastico, e altri aggettivi che ora ahimè non mi vengono in mente, ma credo che abbiate capito. A volte la mia vecchia pelle ha uno scatto e cerca di ripresentarsi, ma io ho la forza sufficiente per ricacciarla indietro e dirle che non c’è più posto, qui e ora, per quella roba. Magari in futuro, ma ora qui siamo già in troppi. E poi c’è questa nuova e indefinita identità che si affaccia timidamente, a volte, altre entra sfondando la porta, e occupa tutta la scena.” Tu sei padre.” Mio dio, che angoscia. Però, anche: che liberazione. Il mio Io ricacciato nei recessi dell’elenco delle priorità. In fondo, in zona spareggio salvezza. Be’, questa cosa fa bene. Soprattutto ai narcisisti come me.
“Papi-apiiiiiiiiiiiiiiiiiiii!”
Eccola lì, la mia meraviglia. Che è già abbastanza ruffiana da aver coniato un vezzeggiativo tutto suo per chiamarmi. “Papi-api”. Che vuol dire che io non sono il suo Papi. Io sono il suo Papi-api, una specie di Papi alla seconda. Ha già intuito le potenzialità della ripetizione nel linguaggio pop. Che meraviglia. A volte, presa da uno slancio d’affetto, mi abbraccia spontaneamente (certo, di solito la costringo), e io intravvedo una donna adulta in quel gesto. Ah. Santa Polenta. E ormai mi riempie di baci. Gesù. Tre o quattro alla volta. Ogni volta temo di morire. Ma per fortuna no.
Cerco di essere rigoroso, quando serve. E non serve spesso. Ma quando serve, serve. E cerco di abbandonarmi a lei, provando a mantenere alcuni paletti che ci permettono di fare in modo che le giornate si svolgano in un modo quasi sensato. Quando cambiamo il pannolino, bisogna concederle una decina di minuti di gioco sul lettone col culetto all’aria. E chi non vorrebbe farlo? Io per primo me ne starei col culo all’aria, attaccato alla testata del letto, dondolandomi sulle ginocchia, per qualche minuto ogni mattina, facendomi beffe della vita (Bompiani? Prrrrrrrrrrr. Commercialista? Prrrrrrrrr. Scrittore wanna-be che vuole che io lavori al suo manoscritto? Prrrrrrrrrrrrrrr. Vabbè, dài, su Bompiani scherzavo, nel caso in cui qualcuno della redazione si imbatta in queste parole…). Poi scegliamo i vestiti da mettere: neanche due anni e già mi risponde “No-no-no-no-no”, agitando il minuscolo indice paffuto, quando le propongo una maglietta che non è di suo gradimento. C’è da dire che dalla mia ho una discreta arte oratoria e una fanciullezza che non mi abbandona, quindi non fatico a mettermi al suo livello e quasi sempre a convincerla che invece quella maglietta è proprio quello che ci vuole per affrontare la giornata che ci attende. Poi, quando è vestita, andiamo di fronte allo specchio per vedere l’effetto che fa. E di solito fa proprio un bell’effetto, altroché.
E poi, da quando è nata, rido come non mi era mai successo in precedenza. Mia figlia fa ridere (sì, immagino, anche i vostri, ma la mia di più: stateci – scherzo, per carità: ogni scarrafone ecc. ecc.). E ognuna di quelle risate è un calcio alla paura, un calcio al terrore e all’angoscia, un calcio ai miei limiti e alle mie inadeguatezze, un calcio alle difficoltà economiche e allo stato del mondo, un calcio alle priorità assurde e un calcio alle abitudini del passato.
Un paio di mesi fa, grosso modo, eravamo al parchetto dietro casa, un pomeriggio. E a un certo punto g ha mosso i suoi primi passi da sola. Holy shit. Cosa fa, cammina? Cammina! Come il primo ominide che ha provato a ergersi sulle zampe posteriori, mia figlia camminava: stava cioè sviluppando le capacità che le avrebbero permesso di andare incontro al mondo. E lontano da me. Eh. Mica sono roba tua, i figli. Sono esseri autonomi. Persone come te. Faranno le loro scelte, giuste o sbagliate che siano. Saranno le loro scelte. Sarà la loro vita. Mi sto allenando da mesi a quel momento (sì, sono un po’ ansioso: non succederà domattina). A non essere di intralcio. A non offrire pareri non richiesti. A non intromettermi. E sto allenando anche lei a quel momento, in un certo senso. Spingendola fin da ora a essere autonoma. Sforzandomi di non aiutarla, ma incoraggiandola a fare da sola. A mostrarle che può farcela da sola. Che io sono sempre lì, ma può farlo da sola. E che anche se ora ci mette diciassette minuti a lavarsi i denti autonomamente (pretende di farlo da sola), quei diciassette minuti sono un ottimo investimento per il futuro.
La settimana scorsa, a casa di mio fratello per il non-compleanno del mio adoratissimo nipotino, g mi ha scacciato dal sedile del pianoforte: fino a quel giorno, lei si sedeva sulle mie ginocchia e “suonavamo” a quattro mani. Quel pomeriggio, ha voluto sedersi da sola. Mi ha fatto un cenno per dirmi che dovevo alzarmi: praticamente mi ha spinto via. E allora sono stato lì, in piedi accanto ai bianchi e neri, con un braccio allungato dietro la sua schiena per evitare un eventuale capitombolo causato dalla foga dell’esecuzione. Ad ammirare quelle manine paffute che producevano grappoli di note tanto assurdi quanto casuali, con la consumata maestria che solo chi sta scoprendo un mondo nuovo può avere.