Ragni

Questo doveva essere l’incipit di qualcosa, che ho scritto credo una decina d’anni fa.

 

Eravamo lo Spirito Santo, la madre e io – il figlio si era attardato su una strada che conduceva al nessunluogo, e infatti non arrivò mai. La notte era soleggiata come un lago salato sotto la pioggia battente e il suo calore si riverberava sulle montagne. Io mi ero fatto tatuare “Ogni lasciata è persa” sull’avambraccio destro, poi me lo ero fatto amputare e lo avevo lasciato ai reduci di Nikolaevka. Il tenente ci ordinò di sparare agli abitanti inermi del villaggio. Noi ci rifiutammo e ci puntammo i parabellum sui piedi. Gli inservienti nudi raccolsero la poltiglia delle nostre estremità e ne fecero polpette per i prigionieri politici omosessuali che morivano di sete nella gabbia delle scimmie. Poi giunse la notizia che l’Apollo era atterrato su Marte e tutti tirammo un sospiro di sollievo, eccetto la rana a due teste, che continuava a contare i suoi soldi con aria preoccupata. L’uomo-cervo scese dalle montagne correndo a rotta di collo inseguito da una nuvola verde che prometteva pioggia. Io mi riparai sotto la tettoia, estrassi il libro delle preghiere e lo usai come cuscino. Non riuscii a dormire. Le esplosioni si facevano sempre più vicine e il mio stomaco gorgogliava. Presi sonno comunque, e quando al mattino mi svegliai era già notte fonda, e i grilli saltavano nella campagna cantando motivi tradizionali.

 

La notte del mattino dopo lo Spirito Santo venne da me e mi chiese se avessi visto il figlio – gli risposi di no, e gli dissi di andare a cercarlo nella foresta oltre il crinale. Le acque del fiume erano uscite dal letto e si erano precipitate sui tetti delle case, osservate con stupore dalle ultime mucche del villaggio. Un tank con la testa di cavallo ci passò davanti. Un prete, abbarbicato sulla torretta, distribuì alla folla le “Nuove regole per la salvezza dell’anima in tempo di guerra”, e tutti si misero a leggere pur non conoscendo il francese. Lo Spirito Santo tornò a mani vuote e anche la sua aureola pareva indebolita. I fasci di luce della contraerea attraversavano il cielo solcato da migliaia di cavallette che si avvicinavano con il loro carico di morte. “Non c’è da preoccuparsi,” dissi io, “sarà sufficiente andare dalla rana a due teste e minacciarla di portarle via tutti i suoi soldi – vedrete che richiamerà le cavallette e tutto si sistemerà.”

 

Da un buco nel cielo precipitò un sasso che recava una scritta in una lingua indecifrabile che io compresi al volo ma decisi di non rivelare agli abitanti del villaggio. Lo Spirito Santo mi guardò con complicità – anche lui conosceva quella lingua – e decidemmo tacitamente di non rivelare a nessuno il senso di quelle parole. Con quel peso sulla coscienza corremmo sulla statale oltre il bosco per andare a parlare come al solito con le prostitute romene che lavoravano là. Ci accolsero con la consueta indifferenza. Una di esse ci mostrò un seno ipertrofico sul quale era disegnata la faccia nascosta della Luna. Estasiati da quella visione io e lo Spirito Santo decidemmo di tornare al villaggio per cercare la madre e vedere se si riusciva a combinare qualcosa. Ma non la trovammo. Alcuni dissero che si era avventurata verso il nessunluogo alla ricerca del figlio che si era perso, altri che l’avevano vista salire sulla torretta del tank dalla testa di cavallo insieme al prete e a una cassa di champagne. Non la rivedemmo più.

 

Dalla mia torretta di avvistamento controllavo l’avanzata inarrestabile dell’estate. I cani a sei zampe, non particolarmente ferrati in matematica, correvano come se ne avessero quattro ma nessuno si accorgeva di nulla. Da una fenditura nella roccia nel quadrante a sud-ovest della terra desolata saltarono fuori due processioni. Una era un funerale, con una bara rosso fuoco portata a braccia dai figli di quella terra, l’altra un matrimonio. Su un carro trainato da tre enormi ragni gialli, la sposa agitava un mazzo di cicoria e sorrideva festante dietro i suoi occhi lividi per le botte. Lo sposo, legato al carro e con la testa piegata su una spalla, strusciava i piedi e perdeva sangue dalla manica destra della giacca. Poi il rombo della terra si innalzò sempre più alto e dalle chiome degli alberi scesero in picchiata fulmini come corvi assetati di sangue. Il prete di entrambe le processioni riuscì a disperdere lo stormo assatanato pronunciando poche parole che commossero anche tutti gli uomini in fila, mentre le donne si infilavano le mani nelle mutande alla ricerca di un’emozione nuova. Dall’alto della mia torretta aspettavo soltanto che il mulo venisse a darmi il cambio – ma lui era troppo ghiotto di biada e così dovetti fare una quindicina di minuti extra. Poi spensi il riflettore e mi appartai sotto uno dei pilastri del muro di cinta per farmi una sega pensando alle gocce di rugiada che si formavano sui fiori nelle mattine di primavera. Quando ebbi finito, fui più triste di prima e corsi dal capomastro per vedere se c’era qualcosa di cui mi potessi occupare. Quando arrivai lì, trovai lo Spirito Santo intento a segare in due un tronco mentre un paio di ragazzette lo sfottevano a causa della canottiera sudicia che indossava. Tornai al campo e mi infilai nella mia tenda, da dove si poteva vedere il cielo stellato che si consumava notte dopo notte. I farmaci non facevano effetto e così, quando come al solito una piccola processione di ragni neri si infilò nella mia tenda per cercare riparo dal DDT, non seppi come fare per scacciare quelle immagini dalla mia mente. Chiamai con un fischio i cani a sei zampe, ma anche loro erano stati assoldati dal capomastro per dei lavori di muratura. Era quasi l’alba di quella mezzanotte quando la madre si affacciò dal crinale portando una lanterna con la quale illuminava i suoi passi tra i cadaveri.

 

Non durò molto. Arrivata al villaggio, venne accusata di aver ucciso tutti gli uomini i cui cadaveri stavano marcendo sulle montagne e la allontanarono, costringendola a guadare il fiume nel cuore del mattino. Io osservai la scena dalla mia tenda, con un ragno sulla spalla e la mia tazza di caffè fumante stretta in una mano. La madre piangeva, ma era una cosa normale. Fu soltanto pochi giorni dopo che i disumani decisero di giustiziare tutti gli umani. Corsero per le campagne e li snidarono uno per uno, sopprimendoli in maniera scientifica. Quando ebbero finito, i migliori tra di loro si autoproclamarono “più-umani”, e presero in pugno la situazione. Convocarono i cani a sei zampe, che con riluttanza si radunarono nel cortile del capomastro mentre questi mangiava un’arancia affacciato alla finestra del piano di sopra. I “più-umani” scelsero l’animale migliore e decisero di conferirgli la stella di sceriffo. La bestia parve lusingata, ma dopo un attimo di esitazione rifiutò decisamente la carica, dicendo di non volersi immischiare in quelle faccende. Il capomastro allora si fece avanti, dicendo che avrebbe fatto lui lo sceriffo, visto che ne aveva la qualità – in fin dei conti, era stato lui che aveva aizzato la popolazione per scacciare la madre quando era tornata dal bosco dei cadaveri. I “più-umani” dissero che si sarebbero presi cinquecento anni per decidere se accettare la candidatura del capomastro e per quella sera tutto finì.

 

Quindici anni dopo ci fu detto che la guerra era finita e che tutto sarebbe cambiato. Nessuno di noi era contento – i morti in special modo – e per un po’ facemmo finta di niente. Io continuavo ad arrampicarmi sulla torretta e accettavo di buon grado le visite notturne dei ragni nella mia tenda. Ma il mattino continuava a sputare fuoco e le processioni dei funerali e dei matrimoni continuavano ad attraversare la valle a ogni ora del giorno e della notte. Fu durante una di queste processioni che la vidi. Io non mi ero accorto di nulla, fu uno dei ragni a farmela notare. Era la processione di un funerale, ma era una cerimonia del tutto particolare. Non c’erano né carri, né bare e tantomeno preti. C’era solo una donna con un occhio cavo che avanzava un passo dopo l’altro, dondolando la mano destra nella quale stringeva una zampa di coniglio.

 

In quella mattina non ci fu niente di sbagliato. La passai seduto nella mia tenda, con una tazza di caffè nella mano destra e il mio amico ragno sulla spalla sinistra – aveva imparato a intrufolarsi nella notte nel mio sacco a pelo e io avevo ormai smesso di cercare di impedirglielo. Per tutta quella mattina, contemplai la sfida che ingombrava il mio orizzonte: la totale assenza di qualsiasi sfida. Cominciò a piovere, l’acqua che scendeva dalla montagna alle spalle del campo trascinava con sé brandelli di uniformi dei soldati morti lassù che nessuno aveva sepolto. L’aria era fetida ma decisamente sopportabile se paragonata all’odore rancido dell’accampamento. Nel mezzo del pomeriggio vidi arrivare il prete a piedi.

“Prete!”

“Non mi scocciare, soldato.”

“Prete, volevo solo domandarti se la madre è venuta con te l’altro giorno. Alcuni l’hanno vista salire sulla torretta del tank dalla testa di cavallo. Insieme a te.”

“Non so di chi tu stia parlando. E in ogni caso, no, nessuno è venuto con me. Sono partito da solo. E, come vedi, sto tornando, anche, da solo.”

Aveva smesso di piovere e una delle solite processioni stava attraversando lo spiazzo quando alcuni colpi di contraerea risuonarono nell’aria. Per abitudine afferrai il mio fucile ma poi ricordai che la guerra era finita e i colpi scomparvero. Nel piazzale del capomastro era in corso una riunione di maiali – chiedevano un aumento della paga e cibo migliore. Il maiale capo agitava le sue lunghe orecchie nere nell’aria per respingere ogni proposta del capomastro, che tuttavia non sembrava particolarmente preoccupato. Sapeva che, in caso di necessità, avrebbe potuto assumere le scimmie che occupavano la gabbia dove ora erano rinchiusi gli omosessuali – o addirittura gli omosessuali stessi, anche se poteva essere una soluzione rischiosa. Aveva ricevuto un grosso appalto per la costruzione di un nuovo convento destinato alle oche del villaggio, che durante la guerra avevano servito in prima linea come crocerossine e ora le superstiti si erano sistemate in un pollaio lasciato libero ai margini del campo.

La sera stava cominciando a illuminare il piazzale costringendo gli uomini ad accendere i lampioni quando lei arrivò fino alla mia tenda, strusciando i piedi sul terreno fangoso. Io la osservavo dal recinto del canile. Aveva i capelli schiacciati sul capo a causa della pioggia e portava una lunga gonna grigia che si interrompeva bruscamente proprio sopra le caviglie. Giunta davanti alla tenda, diede una voce, poi, non ricevendo risposta, si decise a entrare. Ne uscì subito dopo, e fece vagare il suo sguardo lungo il perimetro del piazzale per vedere dove fossi finito. Non mi conosceva, eppure stava cercando proprio me. Dalla montagna altri tuoni rotolarono a valle, coprendo i tetti delle casupole di uno scuro brontolio che mi prese allo stomaco. Avrei dovuto esserci abituato ormai, ma non era così. Mi decisi ad andare incontro alla donna, senza avere idea di cosa dirle.

“Donna.”

“Ti stavo cercando.”

“Come fai a cercare una persona che non conosci?”

“In realtà, ti conosco fin troppo bene.”

“Io però non ti conosco. È più facile che io abbia conosciuto il coniglio dal quale hai staccato la zampa che porti nella mano destra.”

“Ti sbagli. E io ho fatto molti chilometri per arrivare fino a te. Ho attraversato valli e pianure mentre i combattimenti infuriavano. Sono sopravvissuta agli attacchi dei tank dalla testa di cavallo e ai lanciafiamme dei reparti di scimmie. Mi sono nascosta nei boschi, dovendomi difendere dagli orsi e dagli uomini, e ho attraversato indenne le linee più volte, nascondendomi nel fango ogni qual volta vedevo arrivare i soldati. I miei capelli sono diventati neri per la paura: prima che partissi erano biondi, e avevo solo diciannove anni. È passato molto tempo.”

Le feci cenno di seguirmi e andammo a sederci nella mia tenda. Misi sul fuoco la gavetta con un po’ di caffè, che lei bevve avidamente sebbene fosse ancora troppo caldo.

“Hai qualcosa da mangiare?”

“No. Sono mesi che non mangio. Non ne sento più il bisogno, ormai.”

“Dovrai insegnarmelo. Io continuo a sentire la necessità di mangiare: mi nutro di tutto ciò che trovo – corteccia di albero, pelle di animali morti, qualche galletta che recupero dai cadaveri dei soldati.”

“Qui nel campo nessuno mangia più, neppure gli animali. Ci siamo abituati e questo fatto ci ha risolto un sacco di problemi. Ora la gente e gli animali lavorano solo per pagarsi il bere, il caffè e qualche vestito caldo.”

“Ma venendo qui stamattina ho visto un vecchio che mungeva una mucca. Gli ho chiesto se mi dava un po’ di latte ma ha risposto di no. Se non l’ha bevuto lui, cosa se ne è fatto, allora? E le mucche, se non si nutrono più, come fanno a produrre il latte?”

 

“La realtà è che siamo tutti morti. È successo molto tempo fa. All’improvviso, nel pieno della ritirata, le cavallette hanno annerito il cielo e dai crinali della montagna le scimmie incendiarie hanno aperto il fuoco. Ci hanno colto di sorpresa, hanno annientato tutti i soldati di guardia sulle montagne e poi hanno lasciato che i reparti di orsi si occupassero di noi. È stato orribile. Una morte talmente ingiusta, violenta e dolorosa che il mattino dopo, uno alla volta, abbiamo scoperto di essere ancora vivi – tranne i soldati sulle montagne. Nonostante le orrende ferite, le esplosioni, le fucilazioni e i lanciafiamme, il mattino dopo abbiamo scoperto che non eravamo morti. Però non avevamo più bisogno di mangiare. Non so bene cosa sia successo, ma ricordo bene che mentre una scimmia dirigeva verso di me il getto del suo lanciafiamme ho pensato che quella morte era troppo ingiusta e dolorosa per essere accettabile. E lo stesso devono aver pensato tutti gli altri che sono morti qui nel campo. È per questo che non abbiamo più bisogno di mangiare. Forse non moriremo mai più, essendo già morti. Inoltre ci sono stati molti matrimoni dal giorno della nostra morte ma nessuno è riuscito ad avere figli. Neanche gli animali si riproducono più. Però le mucche fanno ancora il latte, così come le capre, e le pecore hanno un pelo foltissimo che viene tosato due volte all’anno e poi ricresce più abbondante di prima.”

“Però, se io posso parlare con te, se ti vedo, insomma, se posso toccarti, vuol dire che sei vivo…”

“Non lo so, non ne sono sicuro. Tu sei la prima dei vivi che passano da queste parti a fermarsi qui da noi…”

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