Una questione di qualità

Oggi sono felice. Sarà perché a Milano stamattina c’è un bel cielo terso e un piacevole teporino primaverile. O forse perché ho avuto una bella conversazione telefonica, di quelle che ti mettono di buonumore. Fatto sta che quando sono felice (fortunatamente accade di rado) mi concedo il lusso di pranzare al mio bar con cucina, di fronte all’Auditorium Mahler, casa dell’Orchestra Verdi.

Orbene, mentre gustavo un risottino ai funghi, ho iniziato a osservare il tizio seduto di fronte a me. Di poco oltre la cinquantina, cranio e viso rasati, naso importante, una certa somiglianza con Ben Kingsley. Ha ordinato il piatto misto (in questo caso, gnocchi al pomodoro, tortino di verdure), e mangiava tranquillamente, dopo aver gettato la cravatta sulla spalla destra per evitare di sporcarsi.

Poi gli squilla il telefono, che ha impostato sulla vibrazione, come dovrebbero fare tutte le persone di buona volontà. E attacca a parlare in un ottimo inglese, davvero ottimo, con un lieve accento East Coast. Non posso evitare di origliare la conversazione. Si parla di pullman, di tour, di due posti a persona per il volo. Insomma, stanno organizzando un tour. Un tour dell’orchestra, perché si parla di 200 biglietti aerei. E nel frattempo, continuando a parlare nel suo ottimo inglese, il tizio riesce a mangiare durante le risposte dell’interlocutore. E immagino che sia talmente abituato a farlo da essere in grado di prevedere quanto durerà ogni risposta, perché a volte con la forchetta infilza tre gnocchi, altre cinque, altre ancora uno solo. Dice che, essendo la loro prima partnership, lui è anche disponibile a non guadagnare nulla, ma non vuole rimetterci un centesimo. E che eventuali accordi con gli sponsor vanno presi prima, altrimenti si rischia di ritrovarsi con un buco di bilancio, un’eventualità che lui vuole escludere categoricamente.

E insomma, dopo aver finito il mio risotto, preso dall’entusiasmo personale e dall’apprezzamento per l’ottimo professionista che mi trovo davanti, ordino anche il tiramisù della casa, pensando quanto segue. Che noi italiani, a volte, siamo i più fighi del mondo. Un pensiero che stupisce me per primo, che mi sono sempre sentito cittadino del mondo, prima che nativo della penisola. E poi mi dico anche che è tutta una questione di standard. Che se volessimo davvero risollevare le sorti di questo buffo e tragico paese, allora dovremmo innanzitutto costringere noi stessi per primi e in seconda battuta i nostri interlocutori, ad alzare il livello. A dare il meglio e ad aspettarsi il meglio. Una questione di qualità, insomma.

Poi bevo il caffè ed esco giusto in tempo per osservare un tizio che fa cascare in mezzo alla strada il carico del suo carrellino per le consegne. Il furgoncino, of course, l’ha lasciato con le quattro frecce sul bordo della carreggiata. Se arriva il tram, non riuscirà a passare. Molto bene.

L’immagine in alto è presa da qui

 

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