Dispacci dalla frontiera

Stamattina mi sono svegliato alle 4:03. Non ho neanche tentato di riaddormentarmi, mi sono vestito e mi sono preparato un caffè. Questo 2020 deve rompere i coglioni fino all’ultimo, mi sono detto, rassegnato. Ho bevuto il caffè fumando una sigaretta come ogni mattina affacciato alla mia ampia finestra che dà a est. In cielo non c’era traccia di alba, troppo presto ancora. Ieri sera, quando ho spento tutte le luci prima di andare a letto, ho notato un perfetto rettangolo di luce sul tavolo della cucina: era la luna che pioveva dal lucernario e dava vita a quella forma così ben definita e incongrua. Mi sono avvicinato al tavolo, ho alzato lo sguardo e oltre il vetro l’ho vista, lassù, quasi perfetta. Ehi, ciao, le ho detto.

Con il senno di poi, ciascuno di noi potrebbe dire che ogni nostra esperienza sia giunta inaspettata e imprevista. E questo anno che si avvia alla fine, perlomeno sul calendario appeso alla parete, non fa differenza. Certo, certo. Avete ragione, questo 2020 è stato roba grossa, non lo si può paragonare a una qualsiasi altra esperienza. Vero.

Sono giorni che mi chiedo cosa mi stia lasciando questo periodo, cosa mi abbia infilato di nascosto nelle tasche, cosa mi abbia concesso di sputare fuori, e cosa invece abbia lasciato immobile e immutato dentro di me, presente già da prima e rimasto intoccato nonostante questi lunghi ultimi dodici mesi.

Ho scoperto come mai prima nella vita di avere le spalle forti. Di avere la capacità di resistere a situazioni che temevo potessero mandarmi letteralmente in pezzi – e forse lo hanno fatto, ma poi i pezzi sono riuscito a rimetterli insieme, in qualche modo. Mi sono avvicinato a persone che immaginavo lontane e ne ho allontanate altre che reputavo vicine. Ho stabilito significativi rapporti con persone che non ho mai visto, semplicemente comunicando in via digitale, scoprendomi giorno per giorno, lasciando trapelare sempre qualcosa in più, rallegrandomi e allo stesso tempo intristendomi per queste strane presenze, esseri umani che all’inizio erano un nome su twitter o da qualche altra parte e che poi con il tempo hanno rivelato un volto, una voce, un numero di telefono. Persone che mi sembra di conoscere e che forse conoscono me.

Ho riscoperto la musica, dopo anni di distacco e di lontananza simili a quelli necessari per chiudere una relazione andata a male. Ma pian piano le cose tornano al loro posto, se un posto ce l’hanno, e in quest’anno strano ho ricominciato a pensarmi anche come un musicista, un uomo che in parte dipende anche dalla musica. E ho ricominciato ad ascoltarla, da solo e con mia figlia, per tutto il giorno, dal mattino fino a sera. E ci sono stati due dischi in particolare che si sono rivelati salvifici. Are We There, di Sharon Van Etten, che è entrato nella mia vita quest’estate all’inizio di luglio credo e che si è imposto come il disco del momento, quello che interpretava perfettamente le mie sensazioni di allora. C’è una qualità nella voce dolente della Van Etten che mi è entrata sottopelle come la carezza di un’amica fidata, il sussurro in un orecchio di qualcuno che ti dice Sì, lo so, ti capisco, ti sono vicino. Un disco che davvero mi ha permesso di terminare il romanzo che ho scritto quest’estate, in una specie di travaso simbiotico di sensazioni e immagini dalla musica a me e da me alla musica. Erano anni che un disco non mi faceva questo effetto. Erano anni che un disco non mi faceva così male e così bene. Quindi grazie, Sharon. L’altro è più recente ed è arrivato dopo l’estate, uno spartiacque di questo anno, una breve finestra di normalità e di senso in queste nostre prigioni. Serpentine Prison di Matt Berninger, così dolente ma non disperato, così caldo e accogliente, quasi un invito a mantenere la calma mentre tutto intorno sembra crollare, quasi una sottolineatura del fatto che ciascuno di noi non può essere altro che ciò che è e che allo stesso modo gli eventi intorno a noi sono l’acqua in cui noi miseri pesciolini rossi siamo costretti a nuotare. Un disco che sembra dire Nuota, nuota, nuota, non fermarti.

La scrittura, dicevamo. Ho ricominciato a scrivere come non mi capitava da anni, in continuazione, finalmente di nuovo ricettivo e sensibile, di nuovo una corda tesa che può essere fatta vibrare da qualsiasi cosa. Di nuovo in sintonia con le cose intorno a me, in sintonia nel senso che sono di nuovo pronto ad afferrare il loro riverbero o il mio riverbero interiore e a trasferirli su carta in un mucchietto di lettere affiancate le une alle altre. E anche questo, la scrittura, a ripensarci sembra un’altra delle cose da cui negli anni scorsi io abbia tentato di fuggire. Ma è tornata fuori con prepotenza quando ho avuto bisogno di ridare un ordine alle cose, quando ho avuto bisogno di capire cosa stava accadendo dentro me e fuori di me, quando ho avuto bisogno di ristabilire un senso dell’esistenza: e in una vita così vuota, ferma, immobile e disperata come la nostra di quest’anno la scrittura mi ha aiutato a trasformare in carne calda e viva anche ciò che non sembrava altro che la carcassa fredda e grigia di un animale sul bordo della strada. Ho ricominciato a scrivere poesie, forse la cosa che in questo momento mi dà la maggiore sensazione, e la mia casa – questa mia casa nuova – è tornata a essere la casa del me che amo tanto, con fogli, taccuini, quaderni e appunti disseminati in ogni dove, tracce vive del mio passaggio nel mondo. Ne scrivo quasi tutti i giorni, poi mi blocco per un po’ fino a quando il mio cervello o qualunque cosa sia mette in fila le parole giuste e allora ne scrivo anche quattro o cinque una dopo l’altra, nel giro di una mezz’ora. Come stamattina, per esempio, quando il tram si è fermato al semaforo rosso in piazza XXIV maggio e come una cantilena arrivata da chissà dove sulla punta delle labbra mi sono spuntate parole e frasi che ho ripetuto nella testa fino a quando il tram non è arrivato alla mia fermata e sono letteralmente corso a casa per scriverla, temendo di dimenticarmela. Un’altra abitudine che ho preso è quella di indicare sempre luogo, giorno e ora in cui ho scritto una poesia, un modo per segnare il territorio come un cane, per pisciare sull’albero dei giorni. Ho completato una prima raccolta e l’ho spedita ad alcuni editori selezionati, una follia farlo adesso, ma tanto che differenza fa? In definitiva, vorrei proprio essere uno che scrive poesie – cioè, quello lo sono già, e ne sono felicissimo, diciamo che vorrei pubblicarle, affidarle al mondo, vedere se innescano una scintilla, se servono a qualcuno, oltre a me.

E insieme alla scrittura ho iniziato una sorta di svelamento pubblico, sempre più allergico alle maschere che ognuno di noi indossa e ancora di più a quelle che gli altri ti mettono addosso. Credo nell’unica verità possibile, che è quella rappresentata dalla condizione di ognuno di noi, ma finché non ne parliamo, finché non ci diciamo chi siamo veramente, tutti i nostri rapporti saranno fasulli, mediati, proiezioni dell’esistenza che vorremmo vivere e non di quella che viviamo veramente. Il rischio è quello di restare prigionieri di queste maschere, di diventare schiavi della proiezione che ognuno di noi si è costruito negli anni, e continuare a vivere come se quella fosse la realtà, ma non lo è. Ho iniziato anche a scrivere di questioni personali come il rapporto con mia figlia, sempre con l’intenzione di cui sopra, e la gioia che provo quando qualcuno che si trova nelle mie stesse condizioni mi scrive per ringraziarmi di aver condiviso le mie esperienze, perché gli sono state d’aiuto, perché credeva di essere il solo a dover affrontare quel genere di cose, ecco, BANG!, funziona, ci siamo, siamo una piccola comunità di esseri reali, deboli e fragili che provano a darsi una mano. Non scrivo di me e mia figlia per vanità, non lo faccio per ricevere i complimenti su che bravo papà sono, non lo faccio per vantarmi, anche perché chiaramente non c’è proprio nulla di cui vantarsi, non è forse così?

Tra le cose belle di quest’anno, la collaborazione con Giuliano nei miei spettacoli su Cave e Carver/Springsteen: la serata su Cave al Bellezza a ottobre è stata davvero magica, uno di quei momenti in cui ogni singola cosa sembra acquistare o riacquistare un senso. Quando sono su un palco sono un uomo senza storia, senza passato e senza futuro, sono un uomo libero che nuota nell’eterno presente della rappresentazione scenica, una minuscola particella dell’universo che fa quello che deve fare. Poi Giocare col fuoco, la mia newsletter di poesie, racconti e canzoni, e ancora di più il canale Telegram, un’idea che avevo da un po’, il tentativo di usare gli strumenti digitali per giungere a un rapporto intimo con voi, un rapporto uno a uno, dalle mie corde vocali direttamente alle vostre orecchie. E anche in questo caso, sembra che funzioni, un’altra micro-comunità tenuta insieme dalle mie parole. Di questo sì che sono orgoglioso.

Tra le cose brutte, i venticinque giorni lontano da mia figlia per il covid, questo senso di assenza inscalfibile, l’eterna lotta tra l’ottimismo della volontà che dice Passerà, passerà anche questa, e il pessimismo della ragione, che ribatte Sì ma nel frattempo questa è la nostra vita, nessuno ce la darà indietro. Non si può avere paura della morte e desiderare che il tempo passi più in fretta soltanto perché ciò che stiamo vivendo è inaccettabile. Si tratta di provare a dare un senso, di scavare e scavare fino a quando non si trova dentro di sé, nascosto chissà dove, un barlume, una lucina che illumini la nostra vita attuale, destinata a ripetersi uguale a se stessa per non sappiamo ancora quanto.

L’altro giorno ho buttato giù una lista di cose che vorrei fare nel nuovo anno. Dieci punti. L’ho riletta subito dopo e mi ha fatto stare bene. Ho sempre cercato di vivere tenendo lo sguardo alto sull’orizzonte, tentando – quando ci sono riuscito – di non farmi rattrappire dal quotidiano, di non accartocciarmi in un angolo, di non cedere alla delusione o allo sconforto, di avere fiducia. Una pratica che mi ha sempre salvato, finora, se in qualche modo oggi posso definirmi salvo. E soprattutto oggi, che la linea dell’orizzonte non riusciamo neanche a vederla, ci vogliono più fiducia, più coraggio, più verità, più ferocia, più gioia, più consapevolezza, più amore, più fatica, più sostanza, più realtà, più forza, più flessibilità, più pazienza, più pace, più voglia, più luce, più cura, più umanità. È l’augurio che faccio a me e a voi. Spero di vedervi presto.

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