Not Dark Yet

Sono le sette di sera. Stai aspettando una telefonata, una lettera, un messaggio, un segno. Lo aspetti da ieri, da una settimana, da un anno. No, lo aspetti da tutta una vita. Mentre il tram sbuca da dietro l’angolo, sferragliando sui binari umidi di una serata di città come tutte le altre e come tutte le prossime a venire, ti stringi nella giacca, controlli di avere il biglietto ‒ perché, in fondo, sei una persona perbene ‒ e sali a bordo appena le porte ti si schiudono di fronte, come un confortevole utero materno in grado di cancellare tutta questa cazzo di città e lasciare solo il cielo su in alto, che stasera ha un taglio viola sul fondo, proprio lì, nel punto in cui il sole ogni sera esce di scena, lasciandoci il riverbero dei suoi colori per ricordarci cosa abbiamo appena perso ‒ cosa perdiamo alla fine di ogni giorno.

Stai tornando a casa, se si può chiamare così. La tua casa, in realtà, è un luogo che non esiste. E stai iniziando ad abituarti all’idea che quel posto non esiste, che la tua casa semplicemente non c’è, né in cielo né in terra. È solo un’idea da inseguire, un bisogno da colmare, da buttare fuori. E come tutte le cose che si inseguono, forse è un bene che non si possa raggiungere, per mantenere viva dentro di sé quella specie di nostalgia del futuro, non del passato, nostalgia di un tempo a venire, di una pace da trovare, di una voce che sia la tua e di mani che finalmente, la sera, durante l’ennesima sigaretta alla fine dell’ennesima giornata di troppe sigarette, assomiglino realmente alle tue mani.

Sei stato giovane ‒ lo siamo stati tutti. Lo hai sentito dentro quel bruciore che ti diceva cosa fare e soprattutto cosa non fare. Non volevi fare la fine di tutti quegli sfigati che vedevi in giro. Eri sicuro che non avresti fatto la fine di tutti gli sfigati che vedevi in giro. Anche loro, probabilmente. Dietro le loro rispettabili vite più o meno borghesi, hanno un momento di debolezza, la sera, o forse al mattino, magari nell’ascensore. Che cazzo. Ma che cazzo. Che ne è stato di me?

Sali sul tram, ti siedi sugli scomodi sedili di legno che ti piacciono tanto. Fuori dai finestrini case dell’inizio del secolo scorso. Passeranno anche loro. Passeremo. Ma non è ancora finita, ti dici. È fatto così, il tuo cuore, ormai l’hai capito. Quando sei a pezzi, quando ti sembra di non poter precipitare più giù neanche di un centimetro, ecco una luce, una voce, un segno, una carezza, un ricordo, una parola, un suono – qualsiasi cosa – e il cuore ricomincia a pompare sangue in tutto il corpo, il cervello si riaccende, le gambe fremono, i muscoli si tirano e si gonfiano, pronti a uno sforzo, uno qualunque, quello che in quel preciso momento ti sembra più di tutti necessario, fondamentale, urgente, vitale. Per non soccombere, per non crollare. Ma sì, fanculo. La vita è questa roba qua. Teniamocela stretta. E ti vien voglia di correre, di scendere dal tram e fermare tutti i passanti per gridargli che sei vivo. Cazzo, sì. Sono vivo. Sono vivo. Sono vivo.

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